La
storia in pillole
Il
Mito di Apollo
Apollo, figlio di Zeus e di Latona,
nacque di sette mesi, ma gli dèi crescono in fretta. Temi lo nutrì
di nettare e ambrosia, e dopo quattro giorni il bimbo già chiedeva a
gran voce arco e frecce, che Efesto subito gli porse. Partito da Delo, Apollo
si diresse senza indugio verso il monte Parnaso, dove si celava il serpente
Pitone, nemico di sua madre, e lo ferì gravemente con le sue frecce.
Pitone si rifugiò presso l'oracolo della Madre Terra a Delti, città
così chiamata in onore del mostro Delfine, compagna di Pitone; ma Apollo
osò inseguirlo anche nel tempio e lo finì dinanzi al sacro crepaccio.
La Madre Terra, oltraggiata, ricorse a Zeus che non soltanto ordinò ad
Apollo di farsi purificare a Tempe, ma istituì i giochi Pitici in onore
di Pitone, e costrinse Apollo a presiederli per penitenza. Apollo, sfrontatamente,
non si curò di obbedire agli ordini di Zeus e invece di recarsi a Tempe
andò a Egialia, in compagnia di Artemide, per purificarsi; e poiché
il luogo non gli piacque, salpò per Tarra in Creta, dove rè Carmanore
eseguì la cerimonia di purificazione. Al suo ritorno in Grecia, Apollo
andò a cercare Pan, il dio arcade dalle gambe di capra e dalla dubbia
riputazione, e dopo avergli strappato con blandizie i segreti dell'arte divinatoria,
si impadronì dell'oracolo delfico e ne costrinse la sacerdotessa, detta
pitonessa, a servirlo. Latona, udita questa notizia, si recò con Artemide
a Delti, dove si appartò in un sacro boschetto per adempiere a certi
riti. Il gigante Tizio interruppe le sue devozioni e stava tentando di violentarla,
quando Apollo e Artemide, udite le grida della dea, accorsero e uccisero Tizio
con un nugolo di frecce: una vendetta che Zeus, padre di Tizio, si compiacque
di giudicare pio atto di giustizia. Nel Tartaro Tizio fu condannato alla tortura
con le braccia e le gambe solidamente fissate al suolo; il suo enorme corpo
copriva un'area di nove acri e due avvoltoi gli mangiavano il fegato. In seguito
Apollo uccise il satiro Marsia, seguace della dea Cibele. Ed ecco come si svolsero
gli eventi. Un giorno Atena si fabbricò un doppio flauto con ossa di
cervo e lo suonò a un banchetto degli dèi. Essa non riuscì
a capire, dapprima, perché mai Era e Afrodite ridessero silenziosamente
nascondendosi il volto tra le mani, benché la sua musica paresse deliziare
gli altri dèi; appartatasi perciò nel bosco frigio, riprese a
suonare nei pressi di un ruscello e così facendo osservò la sua
immagine riflessa nello specchio delle acque. Resasi subito conto di quanto
fosse orribile a vedersi, col viso paonazzo e le gote enfiate, gettò
via il flauto e lanciò una maledizione contro chiunque lo avesse raccolto.
Marsia fu l'innocente vittima di quella maledizione. Egli trovò per caso
il flauto e non appena se lo portò alle labbra lo strumento si mise a
suonare da solo, quasi ispirato dal ricordo della musica di Atena. Marsia allora
percorse la Frigia al seguito di Cibele, deliziando con le sue melodie i contadini
ignoranti. Costoro infatti proclamavano che nemmeno Apollo con la sua lira avrebbe
saputo far di meglio, e Marsia fu tanto sciocco da non contraddirli. Ciò
naturalmente provocò l'ira di Apollo che sfidò Marsia a una gara:
il vincitore avrebbe inflitto al vinto la punizione che più gli fosse
piaciuta. Marsia acconsentì e Apollo affidò il giudizio alle Muse.
I due contendenti chiusero la gara alla pari, poiché le Muse si dichiararono
egualmente deliziate dalle loro melodie, ma Apollo gridò allora a Marsia:
« Ti sfido a fare col tuo strumento ciò che io farò con
il mio; dovrai capovolgerlo e suonare e cantare al tempo stesso ». II
flauto, come logico, non si prestava a una simile esibizione e Marsia non potè
raccogliere la sfida. Apollo invece rovesciò la sua lira e cantò
inni così dolci in onore degli dei olimpi, che le Muse non poterono fare
a meno di dichiararlo vincitore. Allora Apollo, nonostante la sua presunta dolcezza,
si vendicò di Marsia in modo veramente efferato e crudele, scorticandolo
vivo e appendendo la sua pelle a un pino (oppure a un platano, come altri sostengono)
presso la sorgente del fiume che ora porta il suo nome. Apollo vinse poi una
seconda gara musicale, cui presiedette il rè Mida, e questa volta sconfisse
Pan. Divenuto così ufficialmente il dio della musica, suonò sempre
la sua lira dalle sette corde durante i banchetti degli dèi. Altro suo
compito fu quello di sorvegliare le greggi e le mandrie che gli olimpi possedevano
nella Pieria; ma in seguito delegò questo incarico a Ermete. Pur rifiutando
di legarsi in matrimonio, Apollo ha generato molti figli in Ninfe o in donne
mortali.
Apollo sedusse anche la ninfa Driope che custodiva le greggi di suo padre sul
monte Età in compagnia delle sue amiche, le Amadriadi. Apollo si tramutò
in tartaruga e tutte le fanciulle si dilettarono con quell'animaletto: ma non
appena Driope se lo pose in grembo. Apollo si trasformò in serpente e
sibilando mise in fuga le Amadriadi, per poi godere della Ninfa. Driope gli
generò Anfisso, che fondò la città di Età ed eresse
un tempio in onore di suo padre; colà Driope servì come sacerdotessa
finché un giorno le Amadriadi la rapirono e lasciarono un pioppo al suo
posto.
Non sempre il successo arrideva ad Apollo nelle imprese d'amore. Un giorno cercò
di sottrarre Marpessa a Ida, ma essa rimase fedele a suo marito. Un altro giorno
inseguì Dafne, la Ninfa dei monti, sacerdotessa della Madre Terra e figlia
del fiume Peneo di Tessaglia; ma quando l'ebbe raggiunta, Dafne invocò
la Madre Terra che in un baleno la trasportò in Creta, dove essa divenne
Pasifae. La Madre Terra fece poi crescere un lauro là dove si trovava
Dafne, e Apollo intrecciò una corona con le sue foglie per consolarsi.
Apollo attirò su di sé la collera di Zeus soltanto una volta,
dopo il famoso complotto organizzato dagli dèi per detronizzarlo. Ciò
accadde quando il figlio del dio, Asclepio il medico, ebde l'ardire di risuscitare
un uomo morto, privando così Ade di un suddito; Ade naturalmente se ne
lagnò in Olimpo; Zeus uccise Asclepio con una folgore e Apollo per vendicarsi
uccise i Ciclopi. Zeus, furibondo al vedere sterminata la sua guardia del corpo,
avrebbe esiliato per sempre Apollo nel Tartaro se Latona non ne avesse implorato
il perdono, assicurandogli che da quel giorno in poi Apollo si sarebbe emendato.
La sentenza fu ridotta a un anno di lavori forzati che Apollo scontò
pascolando le greggi di rè Admeto di Fere. Obbedendo ai consigli di Latona,
il dio non soltanto accettò umilmente il verdetto, ma colmò Admeto
di favori. Ammaestrato dall'esperienza. Apollo in seguito predicò la
moderazione in ogni cosa: le frasi: « Conosci tè stesso »
e « Nulla in eccesso » erano sempre sulle sue labbra. Indusse le
Muse ad abbandonare la loro sede sul monte Elicona per trasferirsi a Delfi,
domò la loro furia selvaggia e insegnò loro a intrecciare danze
decorose e garbate.
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